Sequel di Orale di maturità -  by Gianlucamoto.

 

Una narrazione vivida e in prima persona di Marzia in un momento intimo di piacere.

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Sequel di Orale di maturità -  by Gianlucamoto

Intropeszione (tempo presente, indicativo).

Domenica 24 luglio ’94 - Ore 5:10.

 

     Le mani serrate sui bordi e la fronte adagiata al rubinetto, il vomito rosso da vino che cola verso lo scarico. Sto male.

 

     Ho voglia di vomitare l’anima, ma quella, quella forse non l'ho più e probabilmente mai l’ho avuta. Sento che Marzia sta svanendo e mai più profetiche furono le parole di Febo, quando per primo mi chiamò ‘Marcia’.

 

     Rifletto sull’accaduto di poche ore fa, del modo in cui l’ho trattato, mi vergogno. Ma non riesco ad andare oltre questo ribrezzo verso me stessa, vorrei punirmi, mettendo a nudo la mia pochezza di spirito davanti a tutti, spogliarmi di tutti i filtri che ho eretto nei loro confronti, i miei compagni di 5a.

 

     Ma qualcosa mi frena. E so cosa è. Non ho dubbi.

Ho goduto, e quel fuoco me lo porto ancora dentro. Non ho avuto un vero e proprio orgasmo e sinceramente, penso di non averne mai avuto uno.

 

     Sono semplicemente inebriata da quella sensazione di potere, di essere stata una domatrice indomita a cavallo del mio leone, che da re si è sciolto in suddito.

 

     Oddio, che fottuta sensazione di grandezza! Il solo ricordo mi annebbia la testa; mi precipito verso la finestra che dà sul ballatoio interno del palazzo di Corso XXII Marzo e strizzando il diaframma emetto l’ultimo ricordo che ho di me stessa:

     “MARZIAAAAAAAAAHHHHhhhh…”.

 

     Sento la testa completamente vuota, leggera. Quel silenzio assordante di quando da bambina provavo ad ascoltare il mare dall’uscio di una conchiglia. Dalla finestra intravedo il primo azzurro dell’alba; dentro, la mia.

 

     Mi svesto completamente. Mi sfilo per prima la maglietta nera, leggo per l’ultima volta la scritta NIRVANA su di essa. Se tutto ha un senso… Lascio poi scivolare sul pavimento i pantaloncini in spugna, sempre neri.

 

     Non porto il reggiseno, non devo sostenere niente. Una terza scarsa. Sollevo infine la gamba e con la mano mi porto le mutande al viso. L’odore, oddio! L’odore che emanano!

 

     Realizzo anche che lo stesso odore lo percepisco ancor prima di levarmele. Come se il mio olfatto si fosse acuito. Un odore di muffa frammisto a quello di mandorle, proprio nella zona dove si era adagiata la mia vagina. A guardarle in controluce verso il lampadario si scorge una bava rinsecchita, come dal passaggio di una lumaca. Come è raffinata la natura! Ero nuda. Reset.

 

     Scalza mi dirigo verso il doppio specchio sulle ante del grosso mobile della nonna, nella camera da letto dei miei, subito dopo il lettone matrimoniale.

     Mi osservo. Con gli occhi seguo meticolosamente il riflesso di ogni curva del mio corpo.

     Non sono tornanti, ma arieggiate strade di campagna, lineari, morbide e fresche. Arrossisco. Un solo pensiero per la testa. Sono proprio bella. I capelli neri ed ispidi, come gli abiti appena dismessi e come la vita che stavo abbandonando.

 

     Mi accarezzano timidamente le spalle. Li odio. Nessuno e niente mi deve più toccare se non lo desidero!

 

     Rientro di corsa nel bagnetto attiguo, apro la specchiera sopra il lavabo e dalla sacchetta della barba di mio padre sfilo il suo regola barba a batterie.

 

     Ritorno di fronte allo specchio, regolo la macchinetta a 2 mm, mi fisso negli occhi e traccio un solco fra i miei capelli per tutta la lunghezza dalla fronte alla nuca. Sto tremando.

 

     Sono emozionata. Mi sto distruggendo e ricostruendo, io. Poi, al cazzo, continuo a radermi passandomi la mano libera sulla nuca, parte invisibile allo specchio, per sentire le eventuali isole di capelli rimaste.

 

     Lavoro perfetto. I miei occhi neri sono adesso al centro del mondo.

 

     Sul mio seno vedo sparsi gli ultimi millimetri di capelli frutto di una più severa rifinitura. Li posso contare uno ad uno e cazzo, come ci vedo da dio! Con le mani li scuoto per farli cadere sul pavimento e un forte stordimento mi prende.

 

     Mi dolgono i capezzoli, turgidi di una durezza nuova, due cappelle di cazzo che sbucano dal mio corpo. Provo a strofinarli fra indice e pollice come per svitare qualcosa, lentamente, sono di una sensibilità estrema, maggiorata dai nuovi eventi, dalla nuova me.

 

     Frastornata dal nuovo acuirsi dei sensi, mi lascio cadere di schiena sul lettone dei miei, che fu della nonna. Un vecchio letto di fine'800, molto alto, con una testiera lavorata in legno ed una simile alla base ma più breve in altezza, le cui estremità rappresentano due colonne leggermene rastremate, con in cima un abbozzo di fiamma, sempre ricavata nel legno.

 

     I miei pensieri corrono, le mie mani tremolanti fanno fatica a seguirli. Ma la sinistra sa benissimo dove si trova. Indice e medio si fanno strada tra la piccola oasi di pelo pubico dove a breve troveranno ristoro.

 

     Con le dita leggermente divaricate percorro le grandi labbra dal basso verso l'alto e ritorno, per almeno una decina di volte lentamente, piccole dune di pelle soffici come due croissant appena sfornati. Non ho mai avuto un buon rapporto con la mia vagina, ho 21 anni e sono vergine.

 

     L'ho sempre odiata, come se non mi appartenesse, al punto tale che dopo aver pisciato, nei giorni di luna storta, non la pulisco, la lascio che si affoghi nei suoi residui di piscio, e durante le mestruazioni desidero affoghi nel suo stesso sangue.

 

     Perché mi ha provocato tanto dolore. È stata sua la colpa, avevo solo 13 anni, e zio Gabriele, il fratello minore di mamma, diciannove. Lui sì che le dita sapeva dove metterle. Ma questa è un'altra storia.

 

     Ed inconsapevolmente mi aveva insegnato ad usarle, le dita che, avvicinandole sulla parte superiore del solco e aprendole a forbice dolcemente andavo ad aprire il primo pertugio di carne come fa un aratro con la terra, pronto a sferzare il primo affondo.

 

     Esco ed entro ripetutamente tenendo strettissime e drittissime le gambe e puntando i talloni verso il basso in modo da potermi inarcare di qualche centimetro col bacino verso l'alto, per poi riadagiarlo sul materasso, facendo avvicinar i miei piedi verso i glutei in modo da poter divaricare le ginocchia nella loro massima apertura, agevolando l'affondo in profondità mai finora esplorate.

 

     È come se avessi premuto un interruttore, mi sento isolata dal mondo, la vista annebbiata con gli occhi che roteano vorticosamente come a cercare una via di uscita, ed un rumore di fondo sordo come di una radio sintonizzata sul nulla e dimenticata accesa.

 

     Percepisco solo l'affanno, il mio, un fiato sempre più corto scandito da quel metronomo che sono le mie dita, dentro, fuori, dentro fuori, dentro, dentro e fuori per decine e decine e decine di volte.

 

     Sento una sorta di stritolamento interno, che parte dal basso ventre, come un crampo dentro le viscere che sale e si sposta verso lo stomaco, una bomba ad orologeria che aumenta di intensità con gli affondi sempre più violenti delle mie dita giù per la figa, dove un terzo dito è arrivato in soccorso, l'anulare. Che nome di merda ma quanto lo adoro cazzo!

 

     Poi una folata di vento fa sbattere una persiana contro il basamento interno, riprendo coscienza, spaventata. No. Non posso permettermelo. Non deve essere il mio corpo a governarmi. Voglio di più.

 

     Rimessa a fuoco la vista, ruoto la testa verso sinistra e noto la fiamma, quella fiamma ricavata dal cuore del legno, che si erge impavida sulla colonnina in corrispondenza di un angolo alla base del letto e per circa una dozzina di dita dal materasso verso l'alto. È perfetta.

 

     Una fiamma di tutto rispetto, larga e vigorosa alla base, dolce e sottile mentre si erge verso l'alto quanto un palmo della mia mano. Discosto la mano dalla figa e la allungo come per afferrare la fiamma e potermi alzare mi piedi ma questa scivola, lasciandomi ricadere a peso morto sul materasso.

 

     Allora la tendo verso l'alto per osservarla controluce col il primo sole del mattino che si affaccia dalla finestra aperta per metà. Son già quasi le otto. Dei filamenti di muco biancastro dondolano tra dita divaricate, come la tela di ragno appositamente tessuta.

 

     Un umore denso, trasparente e denso come lo zucchero a bagnomaria. Filamenti che si rompono al minimo alito di vento ma che vado a rinvigorire in numero e spessore riaffondando le dita nella figa come una penna affamata di inchiostro fa col calamaio.

     Con un colpo di addominali riesco a sedermi sul letto e ad alzarmi in piedi. Instabile ma decisa.

 

     Afferro con la mano destra la base della fiamma come a volerla tenere ferma, e con una manovra degna di delicato attracco aerospaziale, la punto sotto la figa, e lasciandomi sedere dolcemente verso il basso, lascio che il suo fuoco mi penetri in profondità, donando il suo calore al mio.

 

     Ritmicamente ma sempre dolcemente creo un movimento ondulatorio, costante, periodicamente intercalato da un movimento rotatorio, da farmi sgranare gli occhi dal dolore e dal piacere. Imparo a conoscere il mio corpo, a governarlo, a modulare il piacere.

     Mi lascio cadere un po' più azzardatamente verso il basso ma sempre con la mano stretta sulla base della asta, che divoro, si divoro con la figa, la anniento, la faccio scomparire, mentre con la mano sinistra incomincio a sgrillettarmi mi modo compulsivo e aritmico.

 

     In pochi secondi la sfilo da dentro, mi sdraio prona sulla diagonale del letto. Rapidamente mi siedo sulle ginocchia volgendo la mia schiena al momentaneo oggetto del desiderio.

 

     Mi riverso col busto in avanti riuscendo a sollevare il culo come una pecora in calore prima della monta, sollevandolo quanto basta ad incontrare il mio ariete di legno, facendolo riaffondare ripetutamente con movimenti pelvici verso il basso, un pistone perfettamente combaciante col suo cilindro, due tempi, vecchia scuola, su e giù, senza tregua… su e giù, vai e non fermarti… su e giù… su, giù, su e giù, continua troia, affonda il cazzo puttana, su e giù, su e giù, su e giù… STOP… Silenzio assoluto…

 

     La benzina ha preso fuoco. Una fiammata improvvisa ha preso il sopravvento sui miei sensi, il mio corpo si esibisce in movimenti aritmici, scoordinati, non riesco a controllarlo, la mia voce soffocata emette gemiti, parole senza senso!

     “AAH!!!... AAAAHHHH!!!... AHHHHHHHHHHAH”- e poi il buio.

 

     Ho ripreso conoscenza verso mezzogiorno. Mia madre, appena rientrata dal lavoro, mi bussa alla porta avvisandomi per il pranzo. Sa che adoro dormire sul suo letto.

 

     Sono serena. Sorrido e poi sfocio in una risata fragorosa che soffoco col viso verso il materasso. Ricordo che devo ancora fare una cosa. Apro un'anta dell’armadio e, nella parte superiore, rovisto fra gli abiti dismessi da anni. 

 

     Trovo una magliettina gialla, forse avevo sedici anni l'ultima volta che l'ho indossata. Dal cassettone inferiore riesumo un paio di pantaloncini da pallavolista in erba. Sempre gialli. Metto ai piedi le mie All Star gialle. Una la allaccio.

     Esco dalla camera di corsa ed urlo a mia madre che sarei rientrata fra una decina di minuti.

 

     Giù di corsa per le scale e poi dritta verso via Bronzetti. Tre minuti e sono sotto il citofono, terzo dall'alto colonna sinistra. Mi risponde Signora Vanda. Le chiedo se Febo è in casa e se può scendere che ho una cosa da restituirgli. In men che non si dica mi ritrovo Febo giu. Aveva già capito.

 

     Sto immobile. Mi guarda negli occhi. Mi sorride ammiccando. Stupido burattino, penso, e gli porgo il palmo della mano, come per chiedergli indietro qualcosa.

     Mette la mano in tasca e mi porge il mio laccio giallo, premurosamente ripiegato in parti uguali. Gli do le spalle nel gesto di andarmene e mi dice se posso almeno ringraziarlo.

     Sorrido di tenerezza e stringendo il mio laccio nella mano gli faccio capire col mio silenzio che Marzia non esiste più.

 

 

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