Non ho mai avuto un buon rapporto con mia madre. Mi sono sempre sentita diversa da lei, lontana dal mondo bigotto e politicamente corretto sul quale, lei, aveva costruito la sua vita, dal quale era stata inghiottita per vestire i panni delle più docili e devote tra le mogli, le più attente e apprensive tra le mamme, lei che in tutto ciò ho sempre pensato avesse dimenticato di essere una donna.
Io mi sono sempre ribellata a ciò che lei voleva che io fossi, ho sempre pensato che nella vita avrei sempre agito per ciò che mi rendesse pienamente libera, sempre e da sempre che io abbia memoria, e quando le mie amiche già negli anni del liceo facevano della pudicizia un valore, io mi divertivo ad accettare a rendere il mio corpo oggetto del desiderio mio e di quello altrui, dandone la più libera tra le espressioni.
Mi sono, già da allora, sempre data in pasto alle dicerie, al chiacchiericcio, a ciò che per loro diventava fastidio quando per me era dannatamente umano e piacevole.
Così mi divertivo a leggere negli occhi degli uomini il piacere, a fare in modo che tutte le volte che mi scopassero io potessi percepire la brama che avevano di me, del mio corpo, della mia capacità di farli sentire uomini, di farli sentire fautori della mia voglia di cazzo, irrefrenabile, continua, ingente.
Quando ebbi il primo contatto con il sesso avevo solo quindici anni.
Ricordo le tavolate che si facevano nel cortile del palazzo della mia famiglia quando c'era da festeggiare il compleanno di mio nonno. C'erano tutti, zie, zii, cugine, cugini. Era un ritrovarsi la prima metà di settembre a festeggiare nel più meridionale dei modi. Già prima di allora mi capitava di guardare mio cugino Antonio, che all'epoca ne aveva sedici di anni.
Mi pareva bello come il sole, i capelli neri arruffati e gli occhi scuri che su quella carnagione chiara gli davano quel fascino che già all'epoca mi portava a fissarlo e ad incantarmi e poi quell'aria da stronzetto, di colui che ha subito la risposta pronta, cinico e pungente, bello e dannato.
Lo guardavo anche quel giorno, anche a tavola non riuscivo a non farlo. Ogni portata era come immaginare di mangiarla sul suo corpo, assentavo la mia testa per rifugiarla nei pensieri più sconci su di lui.
“Mamma salgo a casa che ho sporcato la maglietta!” - dissi a mia madre dopo essermi accorta del pasticcio che avevo fatto, perché davvero mi ero macchiata tutto.
Mia madre brontolò, voleva che rimanessi in quelle condizioni per tutto il pomeriggio, ma era raro che io riuscissi a sottostare al suo stupido impuntarsi sulle cose. Fu dopo un po' di discussione che intervenne Antonio.
“Zia, se vuoi le faccio compagnia”. - così mi assicuro che faccia le mandate alla porta e che non combini disastri.
Antonio. Antonio che voleva accompagnare me. Un sussulto. Dopo pochi minuti ci ritrovammo su da me ed io che corsi subito a cambiare la maglietta impresentabile che avevo addosso.
Fu quando lo raggiunsi in salotto che mi stupì.
“Ma tu un fidanzato ce l'hai o sei piccolina?” - mi chiese.
“Io non sono piccolina” – risposi scocciata. “E poi no, non ce l'ho il fidanzato.”
“E non ce l'hai perché sei piccolina!” - si prendeva gioco di me.
“A me piacciono le cose che piacciono alle ragazze grandi, non sono piccolina!”.
“Ah, e tipo?!?”.
Rimasi muta. Iniziai inconsciamente a guardare i suoi pantaloni, a fissare il bozzo che il suo cazzo faceva sulla tuta che indossava.
“Che stai guardando, piccerè?” - mi chiese.
Si avvicinò. Tirai fuori la lingua come a bagnarmi il labbro inferiore. Mi prese la mano e la posò sui suoi pantaloni.
“Stai guardando questo? Ne hai mai visto uno?”
Non ne avevo mai visto uno da vicino. Cominciai a massaggiare non distogliendo lo sguardo dai suoi occhi. Massaggiavo. Mi prese la mano e la portò dentro la tuta, dentro gli slip. Quella fu la prima volta che toccai un cazzo.
“Vai giù, te lo presento.”
Mi inginocchiai, non dicevo nulla. Lui tirò giù pantaloni e slip mentre il cazzo barzotto fuoriuscì quasi violento. Me lo ritrovai a pochi centimetri dalla mia bocca.
“Fammi vedere che non sei piccolina.” - mi incitò. “Io non ti dico nulla, fai tutto tu.”.
Lentamente avvicinai il mio naso alle sue palle. Le annusai. Annusavo le sue palle in un modo così naturale, così dannatamente eccitata, che tutto quello che feci da quel momento in poi non saprei neanche spiegarlo dove averlo imparato prima. Il mio naso salì lungo il corpo del cazzo e poi sulla cappella.
Quell'odore. L'odore di cappella. Lentamente portai la lingua sulle palle, la ruotavo, le mettevo in bocca, il cazzo era poggiato sul mio viso. Provai a guardarlo ma Antonio aveva la testa indietro. Quando presi in bocca la cappella la sentii gonfia, quasi umida. Non mi fece schifo.
Cominciai a succhiare come facevo con i chupa chupa, leccavo, succhiavo, ciucciavo, iniziai a muovere la testa avanti e indietro accompagnando il movimento della mia bocca.
Sì, Antonio si stava scappellando nella mia bocca e a me piaceva, piaceva a me ma anche a lui, e il suo piacere mi rendeva ancora di più schiava di tutto quello che iniziava a farsi strada dentro di me e che avrebbe sancito le fila della mia perversione, della mia ninfomania.
Lo gustavo il cazzo di Antonio, gustavo ogni centimetro, cercando di spingermi con la bocca sempre più a fondo. Cominciai ad accompagnarmi anche con le mani quando mi frenò.
“Toglile, usa solo la bocca!” - mi intimò.
Era stupenda la sensazione di quella pienezza, quel gonfiore, più i suoi respiri diventavano forti più mi eccitavo e più il ritmo della mia bocca, della mia testa si facevano celeri. Proseguivo. Veloce. Ancora. Più veloce.
Il ritmo della mia testa ora accompagnava anche il mio corpo, le mie tette che si trovavano già quasi completamente formate a sbattere l'una con l'altra.
Improvvisamente mi spostò di botto uscendo dalla mia bocca. Fu allora che arrivarono i suoi schizzi.
Schizzi di sborra calda. Sul mio viso. Nei miei capelli. Sulle mie labbra. Sulla maglietta pulita. L'odore, mi innamorai dell'odore della sborra. Si tirò su slip e pantaloni in silenzio rotto solo dal mio respiro ancora affannoso.
“Io scendo, dico che hai preso il capriccio di farti una doccia. Ci vediamo giù.” - mi congedò.
Chiuse la porta alle sue spalle. Sorrisi. Misi la mano sulle mie mutandine. Erano fortemente umide. Sorrisi ancora. Ricordo che mi sedetti in terra e aprivo e chiudevo le gambe, aprivo e chiudevo. Ero divertita, felice, soddisfatta...
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