Giugno 1990.
Voi lettori occasionali, probabilmente non sguazzavate nemmeno nel liquido spermatico, ed altri alle prese coi brufoli di fronte ad uno specchio.
Io invece correvo già per le vie di Milano ed avevo intrapreso da alcuni mesi la mia carriera universitaria, indirizzo scientifico-matematico.
Il mio forte desiderio di indipendenza era ciò che governava i miei pensieri in quegli anni. Avevo necessità di recidere il cordone ombelicale con la famiglia, di sentirmi un uomo, libero di curiosare nel mondo e sbagliare responsabilmente.
Non ricordo tutto nei minimi dettagli, è passato veramente tanto tempo, ma era una mattinata tiepida e sicuramente ero uscito di casa per recarmi ad allenarmi, poiché rammento di essermi incamminato vestito con dei pantaloncini da corridore ed una canottiera.
E non avrei fatto quella strada altrimenti, quella strada che portò ad incrociare le nostre vite. La mia, di giovane ribelle, e la tua, mio caro Enrico, di artista visionario amante delle donne e dell’Arte, fin a farti morire di crepacuore.
Percorsi tutta via Senato con il mio zainetto a tracolla le cui bretelle, strette intorno alle spalle non larghissime ma vigorose, evidenziavano le già visibili vene, sentieri che tuttora solcano il mio corpo.
Poi imboccai a destra per via Solferino, percorrendola a spasso spedito.
Non sono mai stato una bellezza classica, ma il mio corpo atletico, gli occhi vispi grandi e nocciola, i boccoli di capelli corvini che mi contornavano il volto, facevano di me un ragazzo interessante.
Ma la mia vera bellezza, quella che ancora serbo con una cura quasi maniacale, era la curiosità verso il mondo, verso la gente e le loro storie, prediligendo quelle degli ultimi.
Assorto nelle mie riflessioni e camminando, traducevo i miei pensieri con la voce, cosa che tuttora faccio....
E si! Parlo quando penso.
Lo faccio in casa, sul lavoro e quando faccio qualsiasi attività che richieda concentrazione.
Gesticolo anche. E quando me ne rendo conto arrossisco, preoccupandomi che nessuno mi scorga, e quando accade, continuo col gesticolare come per voler rianimare una parte di me, intorpidita da posizioni improbabili.
Attraversai di corsa via Fatebenefratelli, entrando in via Brera. Arrivai in prossimità del maestoso ingresso della Scuola d'Arte di Brera
Mi affaccia verso l'interno per godere del suo bel chiostro.
Sulla destra era presente un grosso treppiede, non saprei descriverlo nei particolari, ricordo solo che reggeva uno di quei grossi leggii che i pittori usano per dipingere.
Serviva come grossa bacheca per annunci vari, affitti ed occasioni. Ma un foglio da quaderno grande e giallo limone spiccava fra tutti.
Il fresco che proveniva dall’interno del chiostro era sicuramente allettante, ma avevo fretta e ripromessomi di ripassarci per una più accurata visita, furtivamente tentai di strappare il volantino ma una voce maschile mi interruppe.
“Sei interessato alla pittura?”, recitò una voce profonda da dietro. Mi voltai incuriosito.
“Veramente no, passavo di qua e mi incuriosiva dare un’occhiata all’interno”.
“Piacere Enrico”, disse tendendo la mano.
“Piacere Gianluca”, gliela strinsi e salutai disinteressatamente, feci per andarmene e mi disse, dopo aver strappato il volantino:
“Questo qua sopra è il mio numero, chiamami, ho bisogno di ragazzi come te per un lavoro”.
Presi il foglio, lo ripiegai in quattro e congedandomi anche timidamente, mi misi a correre come se fossi in ritardo per un appuntamento.
Sarò sincero. Ho ancora impresso quell’incontro come se fosse ieri. Non parlo di immagini, ma di sensazioni e di queste è ricco il mio archivio della memoria. Di Enrico non ebbi una buona impressione.
Un uomo trasandato in tutto, nel vestire e nel pettinarsi, dall’odore obiettivamente acre, non coincideva per niente con l’immaginario del milanese rampante anni Novanta. E aveva forse 40 anni. Ma non ne sono sicuro.
La sera, a casa, presi coraggio e composi il numero lentamente, facendo ruotare il disco combinatore con l’indice della mano sinistra.
“Buonasera Enrico sono Gianluca.”
“Ciao Gianluca, scusami ma ho un vuoto di memoria. Dove ci siamo conosciuti?”
“Ci siamo incontrati qualche ora fa all’ingresso di Brera e mi hai detto che stessi cercando persone come me per un lavoro.”
“Ah si bene, non ricordo ma è possibile. Ti spiego in breve, sono un Professore dell’Accademia, mi occupo di scenografia, ma tengo anche un corso di disegno di nudo dal vivo. Ho bisogno di modelli, uomini e donne, che siano disponibili a posare nudi per qualche ora da soli o in gruppo. Che ne pensi?”
…
Non ricordo la risposta. Ma la maturità non ha lenito la sensazione di pudicizia che ho nel mostrarmi nudo e a nudo.
Questo non mi ha impedito certo di passare da letto in letto con un’ossessione rasentante la compulsività, precocemente curata con la passione per altre attività che m’han spesso tenuto a debita distanza dai letti e dalle loro conseguenze.
Detto ciò, accettai. Non si può mica esplorare il mondo sempre vestito da capo a piedi!
Ma una cosa la ricordo. Ed è quell’ansia che mi coglie quando mi accingo ad intraprendere un percorso nuovo, la testa anticipa il corpo nelle decisioni, ma non sai mai come quest’ultimo possa reagire.
…
Mi presentai in via Borsieri, quartiere Isola. Entrai dal portone principale, era spalancato.
Lentamente attraversai il ballatoio per recarmi verso lo studio-abitazione di Enrico, una porticina sgangherata in legno ed aperta preventivamente.
Potrei stare ore a raccontare ciò che vissi esplorando sbalordito la stanza che si presentò ai miei occhi. La descriverò solo per dovere di cronaca, affinché anche chi non credesse alle mie parole, possa in qualche maniera verificarne la veridicità.
C’erano libri ovunque, libri su uno scaffale improvvisato sulla sinistra, pile di romanzi, volumi di ogni genere in giro per la stanza, sul pavimento, impilati negli angoli. Bozzetti di nudo ovunque, per terra, appesi con un chiodo, potevano essere un centinaio e non esagero. Eppoi una poltrona-letto giallastra e bisunta. Poteva essere tranquillamente il suo letto. Ma questa è solo una mia ipotesi.
Enrico mi venne incontro, non erano ancora arrivati i suoi allievi. Mi salutò amorevolmente indicandomi un bagnetto sulla sinistra, a ridosso della libreria, dove disse avrei potuto spogliarmi ed indossare un accappatoio che aveva riservato per ciascuno dei figuranti.
Entrai nel bagno, stretto e lungo. Per terra c’era un fornelletto elettrico e dei bicchieri sporchi. Questo avvalorava la mia ipotesi che ci vivesse. Un bagno molto sporco, con al centro un piatto doccia protetto da un telo di plastica, subito dopo un lavabo ed un vater.
Non ero solo. C’era altri due ragazzi, un uomo ed una donna esattamente. Ci guardammo timidamente abbozzando solo un gelido ciao. Erano giovanissimi. Lui dai tratti latinoamericani, mi rivolgeva la schiena intento a levarsi le mutande.
Come se non volesse anticiparmi niente di quello che avrei visto più avanti. Lei invece, magrissima, aveva già l’accappatoio ben stretto sulla vita.
Niente si intravedeva, nemmeno un abbozzo di seno, quasi inesistente, ma solo un viso di un pallore sintomatico di un corpo sofferente ed una capigliatura castana chiara raccolta in uno chignon. Un viso da favola nonostante le premesse.
Aspettai che il ragazzo si avvolgesse nel suo accappatoio, poi uscirono insieme senza guardarmi, forse erano avvezzi a questo mestiere.
Mi spogliai, con un piede spinsi i miei pochi abiti in un angolo del bagno, presi il mio accappatoio appeso su di un chiodo arrugginito a ridosso della doccia ed uscii.
Rientrato nella saletta principale entrai in quella adiacente, parallela e lunga quanto il bagno, ma più larga.
Era già piena di allievi. Non tutti dell’Accademia, ma anche appassionati di pittura autodidatti, ma la maggior parte erano giovani donne, provenienti dall’estremo oriente, coreane principalmente.
I miei due colleghi di viaggio erano già nudi e seduti adiacenti sul bordo di una grossa tavola di assi al centro della sala, occupandola per un buon ottanta percento.
Enrico mi invitò a mostrarmi nudo e così feci, sciogliendo il nodo che mi teneva ben saldo l’accappatoio in vita e facendolo scivolare verso terra nell’atto di sedermi accanto ai miei due nuovi compagni.
Mi sentivo a disagio. Molto a disagio. Non tentai nemmeno di osservare le nudità al mio fianco. Ero completamente concentrato su me stesso, su come avrebbe potuto reagire il mio corpo e non parlo solo di erezioni incontrollate, ma anche dell’effetto contrario, l’imbarazzo di essere osservato e giudicato ha sempre avuto l’effetto di una doccia gelata su di me.
L’imbarazzo era palpabilissimo ed Enrico, persona empatica e sensibile ad ogni tipo di umore, propose un gioco. Questo avrebbe dovuto servire più che a noi, bersagli di penne indiscrete, agli allievi, soprattutto a quelli orientali, la cui dimestichezza col nudo era ed è tuttora tabù. Diceva che dopo questo gioco non ci avrebbero più visto come solleticanti piume di un recondito erotismo, ma semplici corpi da ritrarre.
Ci fece sdraiare a pancia in su e parallelamente ai bordi del tavolo, la donna al centro dei due uomini con la testa sovrastata dai piedi del latino da un lato, dall’altro i piedi poggiavano sulla mia. Eravamo un unico corpo.
Dispose gli allievi equidistanti intorno al tavolo e chiese loro di chiudere gli occhi. Muovendosi in senso antiorario avrebbero dovuto esplorarci con entrambe le mani, percepire profondità e rilievi, forme e dimensioni, assaporarne la tridimensionalità tattile, slegandola dal loro significato visivo ed emozionale.
Su di me nessuna mano ancora, fu un’attesa senza fine, una impazienza che desideravo finisse presto. Non appena sentii il primo palmo attraversarmi la fronte verso il naso, mi irrigidii tutto.
Enrico, come per un perfido sadismo, afferrò la mano della ragazza e la appoggio sopra il mio uccello moscio, che ritrasse velocemente con la stessa velocità di una mano a contatto col fuoco.
Di mio collaborai, richiamando tutto il sangue dal pene e prosciugandolo di ogni vitalità e percezione visiva. Ero mortificato.
Arrossii, sentii la necessità di scusarmi ma fui interrotto da Enrico. Mi prese il pisello fra pollice ed indice, lo scappellò e chiese all’allieva imbarazzata di tenerlo in quella posizione.
Lei, sempre restia, lo afferrò con la stessa delicatezza che ha una gatta nell’afferrare i suoi cuccioli per il collo, e nel mentre l’insegnante si prodigava nel descrivere il membro maschile sezionandolo con le parole, condendolo di termini anatomici e pronto per essere spadellato.
Avrei voluto fuggire, pensavo di essere deriso, ma il tutto si concluse con una inaspettata risata di gruppo, ammorbidendo così l’atmosfera e lasciando che il sangue riprendesse a solcare i sentieri precedentemente abbandonati.
Ripresi confidenza col mio corpo e, come accade alla maggior parte degli uomini, crebbe la sicurezza in me stesso proporzionalmente alla crescita del cazzo.
Questo gioco servì tanto alle allieve quanto a me, ma ero ancora all’oscuro di ciò che sarebbe avvenuto di lì a breve.
Le sessioni di posa sarebbero state tre, di venti minuti ciascuna, intercalate da quindici minuti di pausa, durante i quali Enrico avrebbe non giudicato ma commentato le opere dei ritrattisti in erba.
La posa veniva sempre decisa da lui, sceneggiatore esperto, e mai potrò dimenticarla.
Mi ordinò di alzarmi in piedi e di posizionarsi al centro del tavolo rivolto frontalmente verso i pittori che nel frattempo si erano radunati tutti su un lato della sala.
Ognuno poteva ritrarre con qualsiasi mezzo a disposizione, penne bic, matite, rapido grafi e ne ricordo anche una con i gessetti blu che usano le sarte per prendere le misure.
Mi chiese di inginocchiarmi sulla gamba sinistra tenendo a squadra la destra col piede ben ancorato al suolo. Invitò poi la ragazza ad accomodarsi sulla mia coscia destra prodigandosi di far aderire perfettamente il suo fianco sinistro al mio petto destro, mentre dispose il ragazzo seduto sulla mia sinistra, con la sua schiena perfettamente a contatto col mio corpo, dal mio ginocchio sul suo gluteo alla sua nuca adagiata sulla mia spalla.
Salì poi sulle assi e, circumnavigandoci, prese il mio braccio destro facendomi cingere da dietro il busto della giovane e portando la mia mano sul suo seno appena accennato, come a volerlo reggere.
Poi prese il mio braccio sinistro, lo incastrò sotto l’ascella sinistra del giovane e ancorò la mia mano fra la coscia e i suoi testicoli, con il palmo rivolto a volerli proteggere.
Enrico stava chiaramente giocando sporco, desiderava una posa tanto speciale per gli studenti ma tanto da me temuta, e ci stava provando su più fronti per ottenerla.
Eravamo una pietà michelangiolesca contemporanea, dove io davo sostegno non ad un corpo morente pregno di spirito, ma a ben due corpi dove la carnalità predominava sul resto.
E gli spettatori questo lo percepivano, eccome se lo percepivano. Infatti venivo nascosto solo in parte dai due ragazzi, visibili erano il mio viso, parti delle mie braccia e i genitali. E quello che temevo succedesse, stava accadendo.
Tentai in ogni maniera di resistergli, ma fu impossibile, sentii un turgore fra le gambe, mai avuto così intenso, la mi asta si andava di peso ad appoggiare sulla gamba sinistra della ragazza e per non darle disagio, riuscivo con i muscoli pubici a ritirarlo verso il ventre ma, sebbene mi concentrassi nel mantenerlo retratto, spossato ricascava a peso morto, producendo un tonfo sordo sulla sua coscia.
Non ci potevamo muovere, con gli occhi andavo a cercare quelli di Enrico come per scusarmi ma incrociai solo il suo ghigno compiaciuto e quello dei suoi allievi che a stento si portavano le mani verso il viso solo per celare le loro risa ormai palesemente evidenti.
Anche la ragazza mi guardò di sguincio, non poteva distogliere lo sguardo. Ma aveva capito perfettamente l’accaduto. Per non parlare dell’altro, che tentando di soffocare le risa, riuscì a pronunciarsi a bassa voce le parole: “Ma siamo in tre o in quattro?”.
Lo guardai basito, ma capii che il clima stava volgendo a noi in modo piacevolmente giocoso, il gelo che si era creato fin dall’inizio si stava sciogliendo in una calda complicità nella quale esistevamo solo noi tre e nessun altro.
“Piacere Gianluca”, sussurrai a bassa voce e abbassando lo sguardo verso il basso aggiunsi: “E lui è con me!”.
“Piacere Carlos”.
“Piacere Yordanka”, e mentre si presentava, con la sua gamba sinistra, mi faceva ciondolare il cazzo per dispetto. Io rispondevo con una leggera pressione del seno con la mano mentre Carlos provocatoriamente stringeva le sue cosce pensando di farmi un dispetto.
Di rimando, le serravo la mia mano sui testicoli e con il mignolo riuscivo addirittura a titillarli la cappella coperta dal prepuzio, ben più restio del mio a partorire il suo bene più prezioso.
Fu un momento di altissimo erotismo, il primo vero e proprio della mia vita, dove tre corpi immobili esprimevano con giochi di sguardi, sospiri e risa appena accennate tutto un subbuglio interiore di una velocità non percepibile, una voglia di vivere pari ad un vulcano dormiente, che dopo secoli di letargo, stia per esplodere.
Ah! quanto ingenua, gaia e leggera può essere la giovinezza, senza tabù e inganni culturali. Quanto forte può essere l’intesa tra uomini e donne lontano dai pregiudizi.
L’ora di posa passò in un baleno. Ci furono anche dei momenti di posa in solitaria, ma mai e poi mai i nostri sguardi smisero di incrociarsi.
Scendemmo dal tavolo. Enrico ci invitò a rivestirci e mentre ci porgeva le vesti, invitò tutti a porre i loro ritratti sulle assi. Noi, di tacito accordo, le afferrammo e fuggimmo rapidi e nudi verso il bagno dove, chiusa la porta, ci abbandonammo a risa isteriche e a commenti ricchi di doppi sensi.
Carlos, amante non più segreto di Yordanka disse: “Ma come cazzo hai fatto ad eccitarti con una seconda scarsa di seno?”.
“Non lo so, non penso sia stato solo quello, ero nervoso e…”.
“Brutto stronzo”, dice Yordanka ridendo “in che senso? Non ti piaccio?”, e mi spinse contro la parete piastrellata, immediatamente dopo fra la doccia ed il lavandino.
Si abbassò a peso morto sulle ginocchia, ricordo ancora il tonfo, prese il mio cazzo moscio con la mano e, sollevandomelo, prese entrambi i coglioni all’interno della sua bocca, risucchiandoli e spingendoli fuori mentre con la lingua riusciva con maestria a ripulirmi lo scroto acido dal sudore.
Carlos le si parò dietro, appoggiando il suo cazzo ancora non completamente turgido sul suo chignon e, simulando un amplesso, aumentava la pressione della sua testa alla base del mio. Il mio, che ormai aveva raggiunto il suo massimo ed il suo, che finalmente sbucava con la cappella oltre la fronte di lei, andando ad intercettare la mia, come in una sfida fra spadaccini.
Per qualche secondo strofinammo le nostre cappelle, una lotta fra maschi alfa dove io avrei ceduto volentieri il posto.
Yordanka non esitò ad interrompere la nostra competizione, afferrò il mio cazzo con entrambe le mani e se lo spinse faticosamente in gola non oltre la sua metà.
Per me era sufficiente, lo trattenne senza inutili stantuffi. Il fatto di tenerla impalata ed immobile stretta tra due fuochi era un sogno, sentirla ansimare e richiedere insistentemente aria e nonostante tutto cercare di affondare per qualche centimetro ancora, fu una sensazione di potere indescrivibile.
Percepivo già le contrazioni di un imminente getto di sborra, con la mano spinsi la testa della ragazza bulgara allontanandola, estraendo quasi per intero il cazzo, mentre con gli occhi andavo a cercare gli occhi di Carlos, che insisteva nello spingere.
Gli presi il cazzo con la mano per farlo desistere ma lui continuava a premere.
Glielo strinsi con forza scappellandolo e massaggiandolo col pollice la dove la cappella forma un cuore.
“Ho capito sin dall’inizio che ti piace”, ringhiò a labbra serrate e fissandomi come per sfidarmi.
Poi con una mano spinse la testa della donna che, trattenendo un conato, si lasciò scivolare il cazzo ancora più a fondo, ma non del tutto.
Inaspettatamente Carlos mi prese per i capelli costringendomi a ripiegarmi sulla schiena per non ferire Yordanka e che imperterrita continuava a divorarmi; mi puntò il cazzo sulle labbra che serrai contraendole energicamente mentre lui tentava con la forza di crearsi un varco.
La sua presa sui miei capelli non mi dava tanto spazio per difendermi.
Fu solo quel momento di involontaria sottomissione che mi fece raggiungere l’apice del godimento; tentai invano di avvisare la donna che, al primo sentore di una colata calda di sborra, tento di prendere aria, riempendosene la trachea ed incominciando tossire e ad inveire:
“Bastardo di merda! Figlio di puttana!”.
Carlos intimorito mollò la presa, le sfilai completamente il cazzo dalla bocca e, ancora in preda a contrazioni incontrollate, gli andai ad imbiancare tutto il viso, questa volta volontariamente.
“Ah Ah Ah Aaah”!
Carlos…, mi ero scordato di lui. Era retrocesso di qualche passo e si stava sborrando dentro la mano chiusa a pugno, in preda ad una eccitazione emotiva, quasi epilettica. Rinsavitosi dopo alcuni secondi, aprì la mano fresca di sperma e me la passò sul viso, quasi per vendetta. Lo lasciai fare. Ne aveva tutto il diritto.
Ci fu un minuto buono di silenzio, pareva che fosse ritornato il gelo fra di noi.
Infine Yordanka guardò prima me, poi Carlos, e scoppiò in una grassa risata liberatoria e contagiosa; la seguii a ruota e cosi fece anche Carlos.
Rimanemmo in silenzio ancora qualche minuto, giusto il tempo per ripulirci a secco con i nostri corrispettivi accappatoi, poi Carlos prese l’iniziativa e disse:
“Siete due puttane, le mie puttane!”.
Si spalancò la porta di botto, era Enrico.
“Bravi ragazzi, ecco i vostri soldi!”, disse.
Mi avvicinai ancora nudo a prenderli per tutti e tre, lo ringraziai e si congedò.
Erano sessantamila lire, venti a testa.
Ne diedi venti a Yordanka e, fissando dritto negli occhi Carlos, gli presi la mano e gli posai sopra i suoi di venti, dicendo:
“E questi sono i tuoi, benvenuta nel club, puttana!”
Scusa Enrico.
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